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Molti professionisti, in particolare nel settore medico-sanitario, si sono scontrati più di una volta, soprattutto nel passato, con polizze che in parte o per tutte le garanzie avrebbero coperto l’assicurato in secondo rischio. Cosa vuol dire?

La clausola di Secondo rischio copre il rischio assicurato nella parte eccedente il massimale di una prima polizza, oppure si potrebbe avere a disposizione una copertura che viene prestata in presenza di condizioni contrattuali diverse da quelle previste per il primo rischio.

In parole più semplici, la clausola rende la polizza effettiva a partire dal massimale previsto dalla prima assicurazione, fino al massimale di secondo rischio.

Affinché possa essere operativa, una clausola di secondo rischio deve essere formulata in maniera specifica. Caratteristica principale ed essenziale è che il rischio assicurato sia già stato oggetto di assicurazione da una prima polizza vigente al momento della stipula della seconda. Entrambe non possono e non devono assolutamente riguardare rischi differenti tra loro.

Essendo una clausola che ha fatto molto discutere sulla propria operatività e liceità, questa è stata ovviamente oggetto di varie dispute nei vari tribunali italiani, concluse con la sentenza 4936/15 della III Sez. Cass. Civ. che ha inteso chiarire definitivamente la natura della clausola in questione.

cassazione_claimsmadeI contratti di assicurazione stipulati in ambito sanitario non possono essere a tempo determinato.

Secondo la Suprema Corte, che si espressa con la sentenza n. 10506/2017, l’inserimento in polizza della clausola claims made è illegittima perché tende a coprire l’assicurato solo per un periodo ben definito.

Claims made è uno dei due regimi (l’altro è loss occurrance) a cui può essere assoggettata una polizza di responsabilità civile professionale e con il regime di claims made si assume che il sinistro venga “attivato” dalla richiesta di risarcimento che l’assicurato riceve, e pertanto le relative garanzie operano dal momento in cui tale richiesta è ricevuta. Di fatto con il regime claims made l’assicurato potrebbe avere copertura assicurativa anche senza essere stato assicurato al momento della commissione dell’errore, purché sia assicurato al momento della richiesta di risarcimento danni.

E il danno in sanità può essere evidente anche dopo diversi anni, lasciando senza copertura l’assicurato a vantaggio dell’assicuratore.

Per questo la Cassazione (Sezione III civile – Sentenza 28 aprile 2017 n. 10506) ha dichiarato nella sentenza che “la clausola cosiddetta claims made, inserita in un contratto di assicurazione della responsabilità civile stipulato da un’azienda ospedaliera, per effetto della quale la copertura esclusiva è prestata solo se tanto il danno causato dall’assicurato, quanto la richiesta di risarcimento formulata dal terzo, avvengano nel periodo di durata dell’assicurazione, è un patto atipico immeritevole di tutela ai sensi dell’art. 1322, comma secondo del codice civile, in quanto realizza un ingiusto e sproporzionato vantaggio dell’assicuratore, e pone l’assicurato in una condizione di indeterminata e non controllabile soggezione”.

Nel caso specifico un paziente operato in un ospedale di Milano aveva riportato lesioni, manifestate a distanza di tempo. In quel momento il paziente aveva chiamato in causa l’azienda ospedaliera per essere risarcito.

L’ospedale a sua volta ha chiamato in causa il proprio assicuratore che ha negato di essere tenuto al pagamento dell’indennizzo proprio per la presenza della clausola claims made dal momento che il danneggiato aveva chiesto i danni all’ospedale “dopo la scadenza della polizza”. In primo grado, il Tribunale di Milano nel 2010 aveva dato ragione alla Compagnia di assicurazione.

Successivamente la Corte di Appello ha ritenuto la clausola vessatoria e condannato la Compagnia al risarcimento. E ora la Cassazione ha respinto l’ulteriore ricorso dell’assicuratore.

medico radiologoCon ordinanza n. 10158/2018 la Cassazione ha stabilito che non è responsabile della tardiva diagnosi di tumore al seno il radiologo che ha effettuato la mammografia poiché tenuto a eseguire l’esame diagnostico e a darne corretta lettura, ma non a suggerire lo svolgimento di altri esami o il consulto di altri specialisti.

Nel caso in oggetto una paziente, poi sottoposta a operazione chirurgica, aveva citato in giudizio due radiologi e la struttura sanitaria presso la quale lavoravano, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni per la tardiva diagnosi della patologia conseguita alla mancata esecuzione di approfondimenti necessari.

In primo e in secondo grado la richiesta non è stata accolta.

Gli eredi della paziente, deceduta durante il procedimento giudiziario, sono ricorsi alla Suprema Corte che respingeva, però, il ricorso stesso poiché la sentenza impugnata superava il vaglio di correttezza logico-formale e non violava alcuna norma di legge.

La Cassazione non può, infatti, svolgere un riesame della vicenda nel merito né rivalutare le prove raccolte: dalle consulenze esperite non risultavano censurabili le condotte dei radiologi, i quali non potevano sostituirsi ai medici, non rientrando nei loro compiti quello di visitare la paziente.

corte suprema

 

Con la sentenza n. 15178/2018, la Cassazione ha condannato un neurologo per il decesso di una paziente dovuto a problemi cardiaci.

 

 

La Suprema Corte ha ritenuto, infatti, che un medico non può limitarsi a curare il paziente in base alla propria specializzazione: se vi sono dubbi circa la natura della sintomatologia riferita, egli deve indirizzarlo presso lo specialista competente per gli opportuni accertamenti.

È stata, quindi, confermata la condanna di un neurologo il quale aveva rasserenato la donna per le sue perdite di coscienza prescrivendo un esame neurologico ed escludendo a priori che gli svenimenti potessero avere natura cardiologica, come poi emerso a seguito della morte della stessa.

Il sanitario “non poteva limitare il proprio consulto a un unico profilo, omettendo qualunque previsione e successiva indicazione di approfondimento, in ordine alla possibile, alternativa genesi cardiaca delle crisi di perdita di coscienza”.

La difesa aveva invocato la colpa lieve sostenendo che se il professionista si attiene alle linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente.

La Cassazione esclude invece la colpa lieve in caso di violazione del dovere di diligenza, ritenendo che la responsabilità sia limitata solo se il medico ha agito secondo la “best practice” senza che vi sia stato alcun errore diagnostico per negligenza o imprudenza, respingendo infine il ricorso del medico.

Per la Cassazione la diagnosi del professionista “determinò il successivo sviluppo degli eventi, con esito infausto per la donna“.

Responsabilità Civile medico - sanitariaUno dei quesiti di fondo, che per molto tempo ha suscitato interrogativi, è se vi sia una fondamentale differenza di responsabilità tra le strutture sanitarie pubbliche e private.

Alla stregua delle disciplina giurisprudenziale e alla luce della nuova normativa, non esiste alcuna differenza. Di fatto gli obblighi verso i pazienti, gravanti su entrambe le tipologie di struttura, sono sostanzialmente equivalenti. Entrambe le strutture concludono con il paziente/cliente un contratto atipico di spedalità.

In caso di errore medico durante un intervento chirurgico, ad esempio, la struttura privata o casa di cura, risponderà in solido con il medico. Qualora, invece, l’intervento sia solo l’atto conclusivo di un iter diagnostico che ricomprende una molteplicità di figure professionale distinte e di conseguenza più figure responsabili dello stesso errore medico, allora la solidarietà si allargherà a tutti i protagonisti del caso.

Tale solidarietà non si configura nell’accertamento della colpa tanto per l’estensione del principio di responsabilità contrattuale quanto per la pronuncia della Cassazione Civile n. 23918 del 09/11/2016, riguardo il principio che regola il nesso di causalità e il concorso di tutte le cause che hanno generato azioni e/o omissioni efficienti alla produzione dell’evento dannoso. Inoltre secondo l’art. 1292 c.c., essendo il contratto di spedalità una obbligazione ed essendo tutti i creditori responsabili in solido tra loro e coobbligati per la medesima prestazione, ciascuno è costretto all’adempimento per la totalità e che l’adempimento da parte di uno libera gli altri dal debito derivante dall’obbligazione stessa, come sottolinea Roberto Francesco Iannone in La responsabilità medica dopo la riforma Gelli – Bianco (legge 24/2017), Edizioni Ad Maiora .

Per quanto sopra espresso, si evince chiaramente come in un contesto di tipo ospedaliero, nella fattispecie, in strutture private, il paziente/danneggiato possa richiedere il risarcimento del danno sia alla struttura che al medico/medici responsabile, con la conseguenza che il pagamento di una di queste due parti libera l’altra. Ai fini dell’accertamento della responsabilità non ha nessuna rilevanza che il medico sia dipendente o meno della struttura; ugualmente non fa alcuna differenza se si fossero instaurati rapporti contrattuali tra più professionisti e il paziente e la struttura privata e il paziente, anche se quest’ultimo rapporto fosse limitato al solo vitto e alloggio.

Ma allora quale strategia difensiva dovrà attuare la struttura sanitaria per evitare tale rischio?