Tratto dal Diario dell’ Avv. Giovanni Santini

1 Marzo

Oggi è una giornata che non dimenticherò mai. Anna e Marco Rossi sono entrati nel mio studio con il cuore spezzato e una richiesta di giustizia per il loro piccolo Matteo, deceduto in ospedale a causa di una forma aggressiva di leucemia. Come avvocato specializzato in malasanità, ho ascoltato molte storie strazianti, ma il dolore negli occhi di questi genitori era diverso. Non potevo rifiutare il loro caso.

Mi hanno raccontato tutto, dal principio. Matteo era un bambino vivace e pieno di vita, amava giocare a calcio e sognava di diventare un astronauta. Era sempre stato in salute, ma un giorno di giugno dell’anno scorso, Anna notò che suo figlio aveva delle insolite ecchimosi sulle gambe e sembrava sempre stanco. Inizialmente pensarono che fosse solo stanchezza o qualche piccolo incidente durante il gioco, ma quando le ecchimosi aumentarono e Matteo iniziò a lamentare dolori ossei, decisero di portarlo dal medico.

La diagnosi arrivò come un fulmine a ciel sereno: leucemia. Marco mi ha raccontato di come il mondo sembrò crollargli addosso in quel momento. Ricorda ancora il volto pallido di Anna, lo sguardo incredulo, le lacrime silenziose che le rigavano il volto. Da quel giorno, iniziò un calvario fatto di ricoveri, esami, chemio e terapie sperimentali. Ogni giorno era una battaglia, una speranza alternata alla paura.

In ospedale, Matteo era seguito da un team di sanitari che assicuravano Anna e Marco di star facendo tutto il possibile. Ma col passare delle settimane, i Rossi iniziarono a notare delle incongruenze. Analisi che risultavano fatte ma di cui non avevano mai visto i risultati, domande che rimanevano senza risposta, decisioni mediche prese senza il loro consenso informato. Anna sentiva che qualcosa non andava, il suo istinto di madre le diceva che c’era di più di quanto i medici volessero far credere.

L’ultima notte di Matteo è impressa nella memoria di Marco come un incubo. Il piccolo aveva avuto una crisi respiratoria, e nonostante le richieste disperate di aiuto, la risposta del personale medico era stata tardiva e inefficace. Anna mi ha descritto quel momento con una voce rotta: “Ho visto mio figlio lottare per ogni respiro, fino a che non ce l’ha fatta più. Il suo corpicino si è rilassato, e io ho capito che era finita.”

Seduti di fronte a me, i Rossi erano l’immagine del dolore e della determinazione. “Non possiamo riportare indietro Matteo,” disse Marco con un filo di voce, “ma possiamo fare in modo che nessun altro genitore debba affrontare quello che abbiamo passato noi.” Anna annuiva, stringendo tra le mani una piccola foto del figlio, l’unico ricordo tangibile di un bambino che non c’era più.

Ho sentito una stretta al cuore ascoltando la loro storia. La mia missione, da quel momento in poi, è diventata chiara: avrei fatto tutto il possibile per portare alla luce la verità e garantire giustizia per Matteo e la sua famiglia.

10 Aprile

Abbiamo presentato le prime denunce. La famiglia Rossi vuole sapere se tutto il possibile è stato fatto per salvare Matteo. L’ospedale ha risposto con il silenzio, ma la verità ha un modo tutto suo di emergere.

15 Giugno

Durante le indagini preliminari, ho scoperto che due sanitari avevano falsificato la cartella clinica di Matteo, facendo risultare come compiute delle analisi mai eseguite. Questa scoperta ha gettato una luce sinistra sulla gestione dell’intero caso. Nonostante ciò, il medico principale è stato scagionato dall’accusa di omicidio colposo, e la richiesta di risarcimento dei danni, in sede civile, è stata respinta. Sentivo che la giustizia non stava seguendo il giusto corso.

5 ottobre

Il processo penale di primo grado non è andato come volevo. Ne va della mia dignità di uomo e di professionista, non posso arrendermi. Ricorrerò in appello!

6 settembre

Sono passati due anni. 730 giorni di studio, ricerca, speranza. In appello, abbiamo ottenuto una piccola vittoria: la Corte ha ridotto le colpe dei sanitari alla sola falsificazione delle date sui report di stampa. Ma per Anna e Marco, questo non era sufficiente. La loro battaglia per la verità sarebbe continuata.

20 dicembre

Altri 4 anni sono passati.

La Cassazione ha accolto le nostre lamentele, annullando la sentenza impugnata agli effetti civili e rinviando il caso al giudice civile competente. Questo ci ha dato una nuova speranza. La verità, finalmente, sembrava a portata di mano.

15 marzo

Il nuovo giudizio presso la Corte d’Appello ha confermato la conformità della terapia eseguita dai sanitari al protocollo per la cura della leucemia di quel tipo. Anche l’assenza di un adeguato consenso informato è stata ritenuta irrilevante rispetto alla morte del bambino. Ma io sapevo che non era così. Anna e Marco avevano diritto a essere informati e coinvolti nelle decisioni riguardanti la salute del loro figlio.

30 maggio

Non ci siamo arresi. Siamo tornati in Cassazione, sottolineando la violazione degli obblighi informativi e del consenso informato, soprattutto riguardo l’uso di un protocollo sperimentale su un minore. Questa battaglia legale è diventata una missione personale per me.

20 settembre 

Oggi, la Suprema Corte ha accolto le nostre lamentele, stabilendo che il consenso informato è essenziale per garantire il diritto all’autodeterminazione del paziente. La decisione ha riconosciuto che Anna e Marco avevano il diritto di essere pienamente informati e coinvolti nelle cure di Matteo. Questa vittoria non restituirà loro il figlio, ma è un passo importante verso la giustizia.

Scrivo queste righe con un misto di soddisfazione e tristezza. La giustizia ha prevalso, ma il prezzo pagato dai Rossi è stato incommensurabile. La loro lotta per Matteo ha portato alla luce l’importanza del consenso informato e dei diritti dei pazienti. Continuerò a combattere per famiglie come la loro, affinché nessuno debba affrontare questa tragedia senza essere adeguatamente informato e coinvolto nelle decisioni mediche.

 

Giovanni Santini 

Avvocato per la Giustizia

 

La storia di Matteo e dei suoi genitori, ci lascia riflettere su tre cose fondamentali:

Scegliere Strutture Sanitarie e Professionisti Assicurati: È essenziale affidarsi a strutture sanitarie e professionisti del settore medico che siano assicurati con polizze adeguate alle leggi vigenti. Questo non solo garantisce il paziente in termini economici, in caso di richiesta di risarcimento, ma assicura la serietà delle strutture e dei sanitari.

 

Rimanere Aggiornati sulle Novità in Tema di Sicurezza delle Cure e Diritti dei Pazienti: Essere informati sulle ultime novità in tema di sicurezza delle cure e diritti dei pazienti è cruciale. Conoscere i propri diritti e le migliori pratiche sanitarie permette di fare scelte consapevoli e di pretendere il massimo dalla sanità.

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*I personaggi e gli eventi descritti in questo articolo sono frutto della fantasia e non corrispondono a persone o situazioni reali. La storia narrata è liberamente ispirata alla sentenza della Corte di Cassazione n. 26104 del 2022.  Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o decedute, è puramente casuale.

Nell’affollata sala operatoria di un ospedale di Salerno, il dottor Ricci, un rinomato ginecologo, stava concludendo con successo un delicato intervento chirurgico. La paziente, Anna, era alla sua quinta gravidanza e sembrava aver superato l’operazione senza complicazioni. Ma come spesso accade, il vero pericolo si nascondeva nell’ombra del post-operatorio.

Dopo l’intervento, il dottor Ricci si accertò che Anna fosse stabilizzata e la affidò al ginecologo di turno per il monitoraggio. Si sentiva sicuro, certo di aver fatto tutto il possibile per garantire la sua guarigione. Tuttavia, poche ore dopo, un’emorragia da atonia uterina, una condizione rara ma grave, iniziò a manifestarsi.

I segni c’erano: una pressione arteriosa instabile, una frequenza cardiaca alterata, la contrazione dell’utero insufficiente e un livello di emoglobina in calo. Ma nessuno li notò in tempo. L’emorragia progredì inarrestabile, e Anna perse la vita.

La famiglia di Anna, devastata dal dolore, cercò giustizia, portando il caso in tribunale. Fu contestato al dottor Ricci di non aver monitorato accuratamente le condizioni cliniche della paziente nel delicato periodo post-operatorio, mancando così la possibilità di una diagnosi precoce dell’atonia uterina e dell’emorragia post partum.

Il medico si difese, sostenendo che aveva svolto il suo dovere fino a quando Anna era sotto la sua supervisione diretta.

Tuttavia, sia in primo grado sia in appello la questione rimase controversa sino alla pronuncia della Suprema Corte che non accettò la linea di difesa del Ricci.

Con la sentenza n. 13375 del 2024, la Cassazione ribadì che la responsabilità del chirurgo si estende anche al periodo post-operatorio. Questo obbligo di sorveglianza è cruciale, soprattutto nelle fasi iniziali del puerperio, per prevenire complicazioni gravi e potenzialmente letali.

La Suprema Corte sottolineò come il monitoraggio post-operatorio non possa essere considerato un compito delegabile senza una chiara e continua supervisione, soprattutto in casi ad alto rischio come quello di Anna. Le consulenze tecniche, sia di accusa che di difesa, avevano concordato sull’importanza di un attento controllo della paziente per rilevare tempestivamente i sintomi dell’emorragia post partum, responsabile del 30% di tutte le cause di morte materna.

La storia di Anna e del dottor Ricci è un doloroso promemoria dell’importanza del monitoraggio post-operatorio e della responsabilità continua che i chirurghi hanno verso i loro pazienti, ben oltre la sala operatoria.

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*I personaggi e gli eventi descritti in questo articolo sono frutto della fantasia e non corrispondono a persone o situazioni reali. La storia narrata è liberamente ispirata alla sentenza della Corte di Cassazione n. 13375 del 2024. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o decedute, è puramente casuale.

In un tranquillo quartiere di Napoli, viveva una giovane donna di nome Sara. Alta 1,72 metri e con un peso di 60 chili, Sara era in perfetta salute. Un giorno, però, decise di seguire un trattamento dimagrante raccomandato dal farmacista di fiducia del quartiere. La promessa era allettante: una perdita di peso rapida e sicura, senza dover affrontare diete drastiche o faticosi esercizi fisici.

Il farmacista, con fare sicuro e rassicurante, le prescrisse delle pasticche prodotte e confezionate da lui stesso. Sara, fidandosi ciecamente, iniziò a seguire il trattamento senza sospettare minimamente che stava per entrare in un incubo.

Le pillole contenevano sostanze off-label: efedrina, comunemente usata per curare l’asma, e naxeltrone, un antagonista degli oppiacei. L’efedrina avrebbe dovuto aumentare il metabolismo di Sara, mentre il naxeltrone, noto per ridurre la sensazione di piacere legata al cibo, era anche noto per la sua forte epatotossicità.

Dopo poche settimane dall’inizio del trattamento, la vita di Sara cambiò drasticamente. La sua salute si deteriorò rapidamente, sviluppando sintomi gravi come dissenteria, vomito, paralisi degli arti inferiori, delle mani e della testa, interruzione del ciclo mestruale e perdita dei capelli. Questi sintomi portarono Sara a essere ricoverata prima in una clinica privata e poi trasferita d’urgenza all’Ospedale Cardarelli di Napoli.

Lì, i medici scoprirono un grave squilibrio elettrolitico causato dalle pillole prescritte dal farmacista. Fu solo dopo aver ricevuto la cartella clinica, diversi mesi dopo la comparsa dei sintomi, che Sara e la sua famiglia compresero il nesso di causalità tra i farmaci somministrati e le sue condizioni.

Il caso di Sara arrivò davanti alla Corte di Cassazione, che con la sentenza n. 10658 del 2024, confermò che il farmacista rispondeva del reato di lesioni colpose. La Corte evidenziò che la somministrazione dei farmaci era avvenuta senza un’adeguata valutazione clinica, violando la legge n. 94/1994 e il Codice deontologico.

Questa sentenza ha ribadito due punti cruciali:

  • Il termine per proporre la querela decorre dal momento in cui la vittima viene a conoscenza della possibilità che la patologia sia stata causata da errori diagnostici o terapeutici.
  • La prescrizione inizia dal momento dell’insorgenza della malattia, anche se non ancora stabilizzata in termini di irreversibilità.

La storia di Sara è un potente monito sull’importanza della prudenza e della responsabilità nell’uso dei farmaci. È fondamentale che i professionisti della salute seguano rigorosamente le linee guida cliniche e le normative per garantire la sicurezza dei pazienti.

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