Questa è stata la storia di Carla, una donna che non si è mai arresa, anche quando il suo corpo cominciava a cedere sotto il peso della malattia. La sua forza, la sua determinazione, il suo dolore, tutto mi ha segnato profondamente. Ogni volta che ripenso a lei, mi ricordo di quanto sia importante la lotta per la giustizia. Carla non chiedeva la luna, chiedeva solo di essere ascoltata, di avere ciò che le spettava: la possibilità di combattere per la propria vita con tutti i mezzi possibili. Ma quella possibilità le era stata negata.

In questo diario, non posso fare a meno di sentire il peso di quella battaglia e la responsabilità che porto con me ogni giorno, per Carla e per tutte le altre donne che, come lei, sono state lasciate indietro.

15 febbraio 2021

Ricordo il momento esatto in cui Carla entrò nel mio studio. Il suo passo era deciso, ma i suoi occhi raccontavano una storia diversa: dietro a quella compostezza apparente si celava un vortice di emozioni. Non era solo la paura a segnare il suo volto, ma una rabbia che sembrava averle scavato dentro l’anima.

Mi raccontò che aveva scoperto il tumore al seno qualche mese prima, durante una visita di routine. Era stata la sua prima mammografia, a 58 anni. Troppo tardi, pensai subito, e Carla lo sapeva. Mi spiegò che, dopo quella prima visita, le avevano detto che “non c’era nulla di cui preoccuparsi”, che si trattava solo di un piccolo nodulo, probabilmente benigno. Quella frase le era rimasta impressa, come una sentenza sbeffeggiante. Era stata rassicurata, come tante altre donne, e le avevano detto di tornare per un controllo l’anno successivo.

Ma Carla aveva iniziato a sentire un dolore sordo, insistente, che si faceva strada lentamente ma inesorabilmente. Quando, mesi dopo, il dolore divenne troppo forte per essere ignorato, tornò in ospedale. Fu allora che tutto precipitò. La nuova visita, l’ecografia, la biopsia, e infine quella verdetto che le cambiò la vita: un carcinoma al quarto stadio. Non c’erano più scappatoie. Il tumore aveva già invaso i linfonodi e stava per diffondersi ad altri organi. Mi disse che sentì un freddo gelido invaderle il corpo quando il medico glielo comunicò.

“Se lo avessimo preso prima…” quelle parole le rimbombavano nella testa, ma ormai erano solo un’eco lontana.

“Sono arrabbiata, avvocato. Arrabbiata come non lo sono mai stata in vita mia.” Lo disse con una voce ferma, controllata, ma nelle sue parole c’era una furia sotterranea che mi colpì profondamente. Mi raccontò di come la sua vita si fosse sgretolata in pochi mesi. Aveva sempre vissuto una vita semplice, dedicandosi alla sua famiglia, alla sua casa. Franco, suo marito, aveva lavorato duramente in fabbrica per garantire a loro una vita dignitosa, e lei aveva fatto la sua parte, prendendosi cura dei figli, preparando i pranzi domenicali, gestendo ogni piccola cosa con attenzione e dedizione. Non aveva mai chiesto molto. La sua esistenza era stata fatta di piccoli gesti, di amore silenzioso e sacrifici quotidiani.

“Non mi aspettavo questo, avvocato,” continuò, con un filo di voce.

“Non mi aspettavo che la mia vita finisse così.” Il suo tono cambiò.

Non c’era più solo rabbia, ma anche un dolore profondo, viscerale.

“Avevo il diritto di saperlo prima, di avere una possibilità di combattere questa battaglia in tempo. Mi hanno derubata del tempo, della speranza. E adesso non posso più fare nulla per riprendermelo.”

Le sue parole mi colpirono come una pugnalata. Carla aveva capito, già allora, che il suo tempo era limitato. La sua vita, fino a quel momento ordinaria, si era improvvisamente riempita di ospedali, di flebo, di chemio. Quella diagnosi mancata non solo le aveva tolto la possibilità di curarsi, ma l’aveva privata della serenità degli ultimi mesi della sua vita. Mi raccontò di come la malattia avesse trasformato tutto: i pranzi domenicali erano diventati silenzi pieni di angoscia, i giorni con i nipoti erano scanditi dal peso della consapevolezza che non li avrebbe visti crescere. Si sentiva tradita da quel sistema che avrebbe dovuto proteggerla.

Mentre ascoltavo Carla parlare, sentivo la mia stessa rabbia crescere dentro di me. Era la rabbia di chi ha visto troppe volte queste storie, la rabbia di un avvocato che sa che, dietro a ogni caso di malasanità, c’è un volto, una storia, una vita spezzata. Ma in Carla c’era qualcosa di diverso. Non era solo una cliente che cercava giustizia, era una donna che voleva far sentire la sua voce per tutte quelle come lei. Sentivo la sua frustrazione, la sua voglia di combattere anche sapendo che forse non sarebbe arrivata a vedere il giorno della sentenza.

“Sono stanca, avvocato, ma non posso fermarmi. Non lo faccio solo per me, lo faccio per tutte quelle donne che come me sono state lasciate indietro. Donne che si sono fidate dei medici, del sistema, e che alla fine si sono trovate a dover affrontare tutto da sole.”

Le sue parole erano cariche di determinazione. Carla voleva che la sua storia fosse un monito, un grido di battaglia per chi, come lei, era stata tradita da quel sistema sanitario che avrebbe dovuto proteggerla. Era una lotta per la giustizia, certo, ma era anche una lotta per il riconoscimento della dignità umana, quella dignità che le era stata strappata insieme ai mesi che le rimanevano da vivere.

30 settembre 2021

Quella mattina, quando entrai in aula con Carla, sapevo che non sarebbe stata una giornata come le altre. Ogni volta che si dà inizio a una causa, c’è sempre una strana tensione nell’aria, un misto di speranza e incertezza. Quel giorno la tensione era più palpabile del solito. C’era qualcosa di speciale in Carla, in quello che rappresentava, non solo per sé stessa, ma per tutte le persone come lei, quelle vittime silenziose di un sistema che a volte tradisce proprio chi avrebbe dovuto proteggere.

Carla era accanto a me, fianco a fianco. Nonostante le evidenti sofferenze della malattia, si era sforzata di presentarsi al meglio. Indossava un tailleur semplice, i capelli coperti da un foulard elegante che nascondeva i segni della chemioterapia. Il suo viso, ormai segnato dalla malattia e dalla fatica delle cure, non lasciava però trasparire debolezza. Era determinata, lo si leggeva nei suoi occhi. Non era lì solo per se stessa, ma per Franco, i suoi figli e, soprattutto, per i suoi nipoti. La speranza di vederli crescere le era stata strappata, e con essa, il sogno di invecchiare accanto a suo marito, godendosi quella serenità che tanto aveva desiderato dopo una vita di sacrifici.

Iniziammo il dibattimento contro l’ASL Toscana Nord Ovest con una denuncia chiara: la ricorrente era stata vittima di un errore medico, di una negligenza che le aveva tolto la possibilità di lottare per la sua vita. La diagnosi tardiva e le cure inappropriate avevano ridotto drasticamente le sue possibilità di sopravvivenza, e ora ci trovavamo qui, a chiedere giustizia per quei giorni che le erano stati rubati.

La nostra strategia legale era solida. Avevamo raccolto tutta la documentazione medica, le cartelle cliniche, i referti mancati, le dichiarazioni di specialisti. Il quadro era chiaro: se Carla fosse stata sottoposta a un esame più approfondito già durante la prima visita, avrebbe avuto una possibilità concreta di sopravvivere. Non era solo una questione di diagnosi, ma di possibilità. Non stavamo chiedendo l’impossibile, volevamo solo che le fosse stato riconosciuto il suo diritto a vivere più a lungo, a ricevere le cure giuste, nel momento giusto.

Esponemmo i fatti con precisione. Avevo preparato una memoria dettagliata per dimostrare che la negligenza dei medici aveva privato la mia cliente della possibilità di combattere efficacemente contro il suo tumore. Il “danno da perdita di chance” era il nostro focus: non si trattava solo di risarcirla per la sofferenza fisica, ma per la concreta possibilità di prolungare la sua vita, anche di pochi anni. Anni che per Carla avrebbero significato tutto.

Ricordo bene il volto del giudice mentre ascoltava. Era attento, impassibile, come sempre, ma sapevo che la nostra battaglia non sarebbe stata facile. La controparte aveva schierato un team di difensori altrettanto preparati, e il loro obiettivo era chiaro: ridurre il più possibile la responsabilità dell’ente. Sostenevano che la malattia era già in uno stadio avanzato quando era stata diagnosticata, che nulla avrebbe potuto cambiare il suo destino. Ma io sapevo che avevano torto. Non si trattava di cambiare il destino, ma di dare alla mia cliente il diritto di sperare, di lottare, di non arrendersi senza possibilità.

Quel giorno capii ancora di più il peso di questa battaglia. Non era solo una questione legale, era una battaglia per la dignità, per il diritto di ogni persona di essere trattata con rispetto e cura. Carla non avrebbe ottenuto indietro il tempo che le era stato rubato, ma potevamo almeno cercare di ottenere giustizia per i giorni che non aveva potuto vivere, per la possibilità di combattere. E questo, per lei, valeva più di qualsiasi risarcimento.

14 luglio 2022

Ricordo quella giornata come se fosse ieri. Entrai in tribunale con il cuore pesante, ma con una fiammella di speranza. Erano passati anni dall’inizio di questa battaglia e, purtroppo, Carla non era più lì a stringermi la mano, come aveva fatto tante volte. Ma sapevo che in qualche modo era presente. Tutto ciò che avevamo fatto era per lei, per la sua famiglia, per restituire dignità ai giorni che le erano stati rubati.

Il giudice iniziò a leggere la sentenza, e con ogni parola sentivo che il peso che ci aveva schiacciato per così tanto tempo si stava lentamente sollevando. Le motivazioni erano precise, dettagliate, inconfutabili: il danno da perdita di chance era stato riconosciuto. Era una vittoria, ma non solo dal punto di vista legale. Era la conferma che quello che Carla aveva vissuto non era solo un tragico destino, ma una negligenza che avrebbe potuto essere evitata.

Il giudice stabilì che Carla avrebbe avuto una “seria, apprezzabile possibilità” di vivere più a lungo se la diagnosi fosse stata tempestiva. Quelle parole mi rimbombavano nella testa. La “possibilità” di vivere. Una possibilità che le era stata negata non dal destino, ma dall’errore di chi avrebbe dovuto prendersi cura di lei.

Il riconoscimento del danno da perdita di chance, la pronuncia del Tribunale di Livorno rappresentava una pietra miliare. Il giudice non si era limitato a riconoscere la negligenza dei medici, ma aveva affermato con chiarezza che la mancata diagnosi precoce aveva sottratto a Carla una concreta opportunità di prolungare la sua vita. Aveva accolto la nostra tesi, secondo cui la chance di sopravvivenza, pur incerta, doveva essere valutata in base alla gravità dell’errore commesso e all’adeguatezza delle cure che sarebbero potute essere somministrate in tempo. La sentenza non si fermava qui. Riconosceva anche il peggioramento della qualità di vita della paziente, quel dolore profondo e costante che aveva vissuto sapendo che il suo tempo si sarebbe esaurito prima del previsto. Il giudice parlò di “danno esistenziale”, riconoscendo che Carla aveva trascorso i suoi ultimi mesi con una consapevolezza straziante: la consapevolezza che la sua vita avrebbe potuto prendere un’altra strada se solo fosse stata diagnosticata in tempo.

Ascoltavo con attenzione ogni dettaglio della sentenza, ma allo stesso tempo pensavo a Carla. Mi tornavano in mente i suoi racconti, le sue paure, la sua rabbia. Aveva sofferto non solo per la malattia, ma per quel senso di ingiustizia che la perseguitava giorno dopo giorno. Aveva saputo del suo tumore troppo tardi, quando ormai non c’era più nulla da fare. Eppure, anche allora, non si era mai arresa del tutto. Voleva che la sua storia servisse a qualcosa. E quella sentenza, quel riconoscimento formale della sua sofferenza, era una sorta di riscatto per tutto quello che aveva dovuto sopportare.

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Anche se non potevo più ascoltare le sue parole, sentivo che quella sentenza era ciò che Carla avrebbe voluto. Non cercava vendetta, non l’aveva mai voluta. Quello che voleva era giustizia, voleva che il suo dolore non fosse stato vano. Pensava a tutte le donne che sarebbero potute trovarsi nella sua stessa situazione. Quella sentenza non le avrebbe ridato i giorni che aveva perso, ma avrebbe potuto fare la differenza per qualcun altro.

Quando uscii dal tribunale, sentii un misto di sollievo e tristezza. Avevamo vinto, ma il prezzo di quella vittoria era stato altissimo. Pensai a Franco, il marito di Carla, e ai loro figli. A loro quella sentenza avrebbe dato un po’ di pace, la consapevolezza che la loro amata moglie e madre aveva ottenuto giustizia, che la sua vita non era stata ignorata.

Quel 14 luglio 2022 resterà per sempre impresso nella mia memoria. Non era solo la fine di una causa, ma la chiusura di un capitolo doloroso che aveva lasciato cicatrici profonde. Avevamo dimostrato che la vita di Carla valeva, che i suoi sogni, le sue speranze, la sua sofferenza erano stati riconosciuti. Ma, soprattutto, avevamo dimostrato che nessuna vita deve essere sprecata, che ogni possibilità di combattere merita di essere presa sul serio.

Forse Carla non era lì per vedere il risultato finale, ma quel giorno, in qualche modo, sentii che aveva finalmente trovato la pace che cercava.

17 gennaio 2023

Quando Franco entrò nel mio studio quel giorno di gennaio, la stanza si fece pesante. Non aveva bisogno di parlare. La morte di Carla lo aveva trasformato. Di fronte a me non c’era l’uomo che avevo conosciuto anni prima, quello che accompagnava Carla alle udienze con uno sguardo sempre un po’ distante, quasi smarrito. Ora, davanti a me, c’era un uomo spezzato ma determinato, con un unico obiettivo: ottenere giustizia per la moglie che aveva perso.

Franco non era mai stato un uomo di molte parole. La loro relazione, fatta di sguardi complici e gesti silenziosi, era di quelle che non hanno bisogno di essere riempite da discorsi. Quando Carla si era ammalata, lui l’aveva accudita senza mai lamentarsi, senza far pesare il dolore che anche lui, inevitabilmente, stava vivendo. Dopo la sua morte, Franco sembrava aver perso il senso di tutto. Mi guardò negli occhi e disse con voce roca:
“Non ho più niente da perdere, Santini. Combattiamo.”

Sapevo esattamente cosa intendeva. Non era solo una questione di soldi, né di onore. Franco voleva che tutto il dolore che avevano passato, tutte le ore di angoscia e disperazione, venissero riconosciute. Era la sua maniera di continuare a lottare per Carla, anche dopo che lei non c’era più. In cuor suo, sapeva che Carla non avrebbe voluto altro che giustizia. E Franco, ora che non aveva più niente da perdere, era disposto a tutto per ottenerla.

Portammo la causa in appello, spinti da un senso di urgenza e giustizia che andava oltre la mera procedura legale. Non ci bastava il riconoscimento della “perdita di chance”. Franco voleva che fosse riconosciuto anche il danno da “premorienza” – la perdita anticipata della vita. Carla non aveva perso solo una possibilità di vivere più a lungo. Aveva perso la vita stessa. Il diritto di invecchiare, di vedere crescere i suoi nipoti, di invecchiare al fianco del suo uomo.

Per Franco, la “premorienza” non era solo un termine tecnico. Era la descrizione esatta del vuoto che la moglie aveva lasciato nella loro casa, delle stanze silenziose in cui non riecheggiava più la sua risata, dei progetti che avevano fatto insieme e che erano stati interrotti bruscamente. Ogni giorno, ogni singolo momento che Carla non avrebbe più vissuto, era per lui un’ingiustizia troppo grande da accettare. “Non può finire così,” mi disse Franco una sera, “Non possono dire che hanno fatto tutto il possibile quando le hanno tolto ogni possibilità.”

In Corte d’Appello, l’ASL Toscana Nord Ovest cercò di minimizzare la questione, come aveva fatto fin dall’inizio. Argomentavano che non fosse giusto parlare di “premorienza” perché, sostenevano, Carla era già gravemente malata e la sua condizione, anche con una diagnosi tempestiva, non sarebbe cambiata significativamente. Cercavano di ridurre tutto a una fredda logica medica: statistiche, probabilità, margini di errore. Ma per Franco, e per me, non si trattava di numeri. Si trattava della vita di una persona, delle sue esperienze, del dolore vissuto e del tempo che le era stato rubato.

Franco seguiva ogni udienza, seduto in silenzio ma con una tensione visibile sul volto. E ogni volta che l’avvocato dell’ASL parlava di Carla come fosse solo un caso clinico, sentivo la sua rabbia montare, quella rabbia silenziosa che solo chi ha perso tutto può provare. Era come se vedesse Carla svanire di nuovo, trasformata in una semplice voce in una cartella clinica. Ma lei non era solo un numero, e noi eravamo lì per ricordarlo.

Alla fine, il giorno del verdetto, la Corte d’Appello di Firenze confermò la sentenza del Tribunale di Livorno. Avevano riconosciuto non solo la perdita di chance, ma anche che Carla aveva vissuto i suoi ultimi mesi in uno stato di sofferenza inaccettabile, consapevole della sua condizione e di quello che le era stato tolto. La Corte parlò di “danno esistenziale”, di quella consapevolezza angosciante che Carla aveva portato con sé fino alla fine.

Ascoltai le parole della sentenza e sentii un nodo alla gola. Era una vittoria, certo, ma non era una vittoria dolce. Pensai a Carla, a tutto quello che aveva subito, e a Franco che mi sedeva accanto, le mani strette in un pugno di nervi e dolore. Avevamo ottenuto ciò che volevamo: il riconoscimento che Carla aveva subito non solo un torto, ma una sofferenza profonda, che il sistema sanitario non aveva saputo o voluto evitare.

La Corte non si era limitata a confermare il danno da perdita di chance. Aveva riconosciuto che Carla aveva perso anni di vita che le appartenevano, che avrebbe potuto vivere ancora con suo marito, con i suoi figli, con i suoi nipoti. Non solo la possibilità di vivere più a lungo, ma la sua vita stessa era stata tagliata troppo presto. E la consapevolezza di questa condanna prematura, quel dolore silenzioso che l’aveva accompagnata fino all’ultimo respiro, non era un danno trascurabile. Era una ferita aperta, per lei e per la sua famiglia.

Quando uscimmo dall’aula, Franco non disse nulla per un lungo momento. Il silenzio tra di noi era denso di emozioni. Poi, con voce spezzata, mi disse: “Grazie, Santini. Non era giusto che finisse così. Ora Carla può riposare.” Quelle parole mi colpirono profondamente. Franco non cercava più vendetta o risarcimenti. Tutto ciò che voleva era la certezza che Carla non fosse stata dimenticata, che la sua vita e la sua sofferenza fossero state riconosciute.

In quel momento capii che, per quanto dolorosa fosse stata questa battaglia, avevamo dato a Carla ciò che meritava: la dignità di una vita che non poteva essere ridotta a numeri e statistiche, ma che doveva essere ricordata come una vita vissuta, amata e persa troppo presto. Franco aveva mantenuto la promessa fatta a sua moglie. Aveva combattuto per lei, fino alla fine.

22 ottobre 2023
Quando arrivò il giorno della sentenza della Corte di Cassazione, sapevo che quel momento avrebbe rappresentato l’epilogo di una lunga e tormentata battaglia. Non ero solo il loro avvocato, non lo ero più da tempo. Ero diventato un compagno di strada per Franco e i figli di Carla, condividendo con loro ogni passo di questa lotta per la verità, per il rispetto, per il diritto di ricordarla come meritava.

La Suprema Corte era l’ultima speranza per dare un senso a tutto quel dolore, per dimostrare che la morte di una donna, di una moglie e di una mamma non era stata solo una triste fatalità, ma il risultato di errori che non potevano passare sotto silenzio. Il nostro obiettivo era far riconoscere non solo la perdita di chance, ma anche la perdita anticipata della vita – quel “segmento” di vita che Carla avrebbe dovuto vivere e che, a causa di diagnosi sbagliate e ritardi nelle cure, le era stato strappato.

Gli avvocati di controparte, come prevedibile, avevano fatto di tutto per sminuire le nostre argomentazioni. Sostenevano che risarcire sia la perdita di chance che la perdita anticipata della vita fosse una “duplicazione ingiusta”, un modo per gonfiare artificialmente il risarcimento. Sentivo la loro voce scorrere fredda e razionale tra i muri della Corte, come se Carla non fosse altro che un nome tra le carte, un numero tra i fascicoli.

Ma per noi, per Franco, per i figli, non era così. Non era mai stato così.

Quella battaglia legale non riguardava solo il denaro, ma la giustizia. Franco lo sapeva bene. Gli era stato tolto il diritto di invecchiare accanto alla donna della sua vita, ai figli era stata negata la possibilità di avere la madre presente nei momenti più importanti della loro esistenza. E questo, ne eravamo convinti, era un danno che meritava di essere riconosciuto.

Il verdetto storico

Quando i giudici della Suprema Corte iniziarono a pronunciare la sentenza, il mio cuore batté forte. Ogni parola era un passo verso la conclusione di una storia che ci aveva consumato per anni. Le loro parole, però, portarono una chiarezza che fino ad allora sembrava impossibile ottenere. La Corte dichiarò che, sebbene normalmente il risarcimento per perdita di chance e perdita anticipata della vita non potessero essere riconosciuti contemporaneamente, nel caso di Carla era diverso. La sua vicenda era eccezionale.

La Corte riconobbe che Carla aveva perso una concreta e apprezzabile possibilità di vivere più a lungo, e che, oltre alla perdita fisica, il dolore della consapevolezza di quel tempo che le era stato rubato era altrettanto devastante. Le parole dei giudici furono precise, ma cariche di umanità: “Trascorrere gli ultimi giorni con la consapevolezza angosciante di una morte prematura causata da errori medici è un danno morale che non può essere ignorato.”

Non solo. La Corte stabilì che quel “segmento” di vita non vissuto, gli anni che la ricorrente avrebbe potuto vivere accanto alla sua famiglia, era un danno risarcibile, anche se non più per lei. Quegli anni spettavano ai suoi congiunti, lei non era più lì per reclamarli.

Questa sentenza non restituiva Carla alla sua famiglia, ma riconosceva che la sua perdita era stata reale, tangibile, e che il sistema sanitario aveva fallito.

Quando uscii dal tribunale con Franco al mio fianco, ci fu un lungo silenzio tra di noi. Lì, in quel momento, non servivano parole. Non era un uomo che si abbandonava facilmente alle emozioni, ma il suo sguardo parlava per lui. Mi strinse la mano, e in quell’unico gesto sentii tutto il peso degli anni trascorsi. Il peso della battaglia, della sofferenza, della speranza che finalmente si era trasformata in giustizia.

“Grazie, Santini,” disse piano, con la voce spezzata dall’emozione. “Abbiamo fatto il possibile. Ora Carla può riposare.”

Quelle parole mi colpirono al cuore. Erano il riconoscimento non di una vittoria legale, ma di una battaglia umana. Franco non cercava vendetta. Voleva solo che il mondo sapesse ciò che Carla aveva subito, che il sistema non poteva passarla liscia, che il dolore di una vita spezzata doveva essere riconosciuto.

Per me, in quel momento, sentii che avevamo ottenuto non solo una sentenza favorevole, ma qualcosa di più profondo. Avevamo dato voce ad una donna che non poteva più parlare, avevamo permesso alla sua storia di emergere, di essere ascoltata. Carla aveva lottato fino all’ultimo per far sentire la sua voce, per ottenere giustizia non solo per se stessa, ma per tutte quelle donne come lei, lasciate indietro, abbandonate da un sistema che dovrebbe proteggere.

Mentre guardavo Franco uscire dal tribunale, ripensai a tutto quello che era successo.

Quella sentenza non avrebbe riportato indietro Carla, ma aveva dato un senso alla sua lotta. Aveva restituito dignità alla sua vita e alla sua morte. Sapevo che Franco e i suoi figli avrebbero vissuto per sempre con il dolore della sua assenza, ma almeno ora potevano guardare avanti sapendo di aver fatto tutto il possibile. Di non aver lasciato che Carla fosse solo una vittima, ma una donna che, anche nel suo ultimo respiro, aveva ottenuto giustizia.

E in fondo, questa era la vittoria più grande.

La storia di Carla, Franco e dei suoi figli, ci lascia riflettere su tre cose fondamentali:

Scegliere Strutture Sanitarie e Professionisti Assicurati: È essenziale affidarsi a strutture sanitarie e professionisti del settore medico che siano assicurati con polizze adeguate alle leggi vigenti. Questo non solo garantisce il paziente in termini economici, in caso di richiesta di risarcimento, ma assicura la serietà delle strutture e dei sanitari.

Rimanere Aggiornati sulle Novità in Tema di Sicurezza delle Cure e Diritti dei Pazienti: Essere informati sulle ultime novità in tema di sicurezza delle cure e diritti dei pazienti è cruciale. Conoscere i propri diritti e le migliori pratiche sanitarie permette di fare scelte consapevoli e di pretendere il massimo dalla sanità.

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*I personaggi e gli eventi descritti in questo articolo sono frutto della fantasia e non corrispondono a persone o situazioni reali. La storia narrata è liberamente ispirata alla sentenza della Corte di Cassazione n. 26851 del 2023.  Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o decedute, è puramente casuale

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