Tratto dal Diario dell’ Avv. Giovanni Santini
1 Settembre 2002
Oggi è stata una giornata che non dimenticherò mai. La chiamata è arrivata nel primo pomeriggio, mentre stavo riorganizzando alcuni vecchi fascicoli nel mio studio. Era Stefano, Stefano Esposito, un caro amico che conosco da anni. La sua voce, di solito calma e sicura, era spezzata dall’angoscia. Mi ha raccontato che il suo bambino, Luca, era stato ricoverato d’urgenza all’ospedale Civico di Palermo.
Stefano è un uomo di 45 anni, con mani forti segnate dal lavoro duro in fabbrica. Nonostante la fatica, ha sempre mantenuto una dignità e una forza che ho ammirato fin da quando ci siamo conosciuti, tanti anni fa. Con lui e sua moglie Marika, 40 anni, cassiera nella grande distribuzione, abbiamo condiviso molti momenti. Sono persone semplici, di quelle che non chiedono mai troppo e si accontentano di ciò che la vita offre loro, ma che meritano molto di più.
Ho sempre visto in Stefano un uomo che affronta la vita con serietà e dedizione. Lui e Marika hanno cresciuto Luca con amore e cura, cercando di dargli tutto il possibile, nonostante le difficoltà economiche. Era il loro unico figlio, era il loro orgoglio, un bambino di otto anni con un sorriso contagioso e una passione sfrenata per il calcio. Ricordo che Stefano mi raccontava spesso di come Luca sognasse di diventare un grande calciatore, proprio come il suo idolo, Roberto Baggio.
Oggi, però, tutto questo sembrava lontano.
Nella telefonata, Stefano, mi raccontò che la giornata era iniziata come tante altre. Una domenica di fine estate passata al parco, con gelati e risate. Nel pomeriggio, Luca aveva iniziato a sentirsi male. Prima un mal di testa, poi la nausea, e infine i ripetuti episodi di vomito che li avevano costretti a correre in ospedale.
Quando sono arrivato al Civico, ho trovato Stefano e Marika distrutti dall’ansia e dalla paura. Luca era stato ricoverato e i medici avevano parlato di una possibile meningoencefalite, ma la diagnosi non sembrava convincerli.
Maria non lasciava mai la mano di Luca, e Stefano, sebbene cercasse di mantenere la calma, non riusciva a nascondere il panico che gli stava crescendo dentro.
Il loro dolore, la loro paura, il terrore e la disperazione non avevano eguali.
2 Settembre 2002
La situazione è peggiorata il giorno successivo, quando Luca ha cominciato a mostrare segni di tachicardia. Era uno di quei giorni in cui la tensione sembrava palpabile nell’aria, e il suono incessante dei monitor che rilevavano i parametri vitali di riempiva la stanza con un ritmo irregolare e inquietante. Stefano e Marika, sempre accanto al letto del loro bambino, osservavano impotenti mentre il piccolo diventava sempre più pallido, con il battito cardiaco che accelerava in modo preoccupante.
Ogni suono anomalo, ogni variazione di ritmo, era come una pugnalata al cuore per quei due genitori disperati.
Stefano, con la sua voce tremante e il viso segnato dalla stanchezza e dalla preoccupazione, mi ha spiegato che, nonostante i segni evidenti di peggioramento, i medici si limitavano a prendere nota della situazione senza fare approfondimenti adeguati. Ogni volta che Stefano o Marika cercavano di capire cosa stesse succedendo realmente, ricevevano risposte vaghe e rassicurazioni superficiali. “Stiamo monitorando la situazione,” dicevano, mentre il tempo passava inesorabile e il bimbo sembrava scivolare sempre più lontano, nell’oblio più profondo.
La visita cardiologica, che avrebbe dovuto fare chiarezza, si rivelò, invece, un’amara delusione.
Il cardiologo entrò nella stanza con un’aria distratta, quasi annoiata, come se quel caso non rappresentasse nulla di diverso da tutti gli altri che aveva visto durante la giornata. Stefano lo osservava con speranza, confidando in qualche indicazione che potesse finalmente portare alla soluzione del problema del figlioletto. Ma invece di eseguire esami approfonditi o cercare di comprendere meglio la situazione, il medico si era limitato a fare qualche domanda di routine. Aveva Annotato semplicemente che sarebbe stato opportuno chiedere se ci fossero precedenti di anomalie cardiache in famiglia, come se quella nota potesse bastare a risolvere la situazione.
Nessun esame strumentale, nessun ECG, nessuna ecocardiografia per verificare lo stato del cuore.
Nulla che potesse far emergere la gravità della condizione del bambino.
Nessuna vera attenzione.
Solo una frettolosa annotazione su una cartella clinica che, con il senno di poi, sembra quasi un’ammissione di colpa, un riconoscimento implicito che qualcosa di più avrebbe dovuto essere fatto, ma non lo fu. Stefano mi raccontava tutto questo con un tono di incredulità e rabbia, incapace di comprendere come dei professionisti della salute potessero essere così superficiali di fronte a una situazione tanto delicata. E io, ascoltando il suo racconto, non potevo fare a meno di condividere la sua frustrazione e il suo dolore, consapevole che quelle ore di negligenza e di trascuratezza avrebbero avuto conseguenze devastanti.
Sono tornato prima in studio e poi a casa, vestito di sconforto e delusione ma intriso di rabbia per questa situazione paradossale.
3 settembre 2002
Oggi è il terzo giorno.
Luca è stato trasferito in rianimazione pediatrica. Questo momento rimarrà impresso nella mia mente per sempre.
Ricordo lo sguardo di Stefano, un uomo solitamente forte e determinato, ridotto all’impotenza di fronte al peggior incubo di ogni genitore. I suoi occhi, solitamente vivaci e pieni di vita, erano spenti, persi in un abisso di dolore e incredulità. Si muoveva come un automa, incapace di accettare la realtà che gli si presentava davanti. Ogni respiro sembrava una lotta contro il peso insopportabile di quella sofferenza, un dolore che si faceva strada nel suo cuore e lo spezzava pezzo dopo pezzo.
Maria, al suo fianco, era l’ombra di se stessa.
Una donna che aveva sempre affrontato la vita con coraggio, ora si trovava schiacciata sotto il peso di una disperazione senza fine. Non smetteva di piangere, con le lacrime che scendevano ininterrotte lungo il viso pallido, mentre si aggrappava disperatamente al piccolo corpo di Luca. Lo stringeva a sé con una forza che sembrava voler sfidare l’inevitabile, come se potesse, con la sola potenza del suo amore, trattenerlo tra le sue braccia e impedirgli di scivolare via. Le sue mani tremavano mentre accarezzava dolcemente i capelli del suo bambino, cercando disperatamente di infondere un po’ di calore in quel corpo che, minuto dopo minuto, si stava spegnendo.
Ogni macchina, ogni suono nella stanza di rianimazione, sembrava amplificare il senso di impotenza. I monitor producevano un ritmo che sembrava scandire il tempo rimanente, un conto alla rovescia verso l’inevitabile. Stefano e Marika osservavano ogni piccolo movimento dei medici, ogni sguardo, ogni gesto, cercando un segnale, una speranza a cui aggrapparsi.
Ma quella speranza non arrivò mai.
Poche ore dopo, Luca se n’era andato.
Il suo cuore, così piccolo e fragile, si era fermato, lasciando un vuoto incolmabile nei suoi genitori. Il silenzio che seguì fu assordante. Era come se il mondo si fosse fermato, come se tutto avesse perso significato in quell’istante. Stefano, devastato dal dolore, si girò verso di me. Nei suoi occhi non c’era più rabbia, solo un’infinita desolazione.
Mi ha guardato negli occhi, cercando in me un appiglio, una ragione per andare avanti. Con la voce rotta, mi ha detto questa frase che è penetrata nel mio cuore come la lana di una spada:
“Giovanni devi fare giustizia per il mio bambino! Non permettere che la morte di Luca sia dimenticata, non permettere che passi come un altro caso di malasanità senza conseguenze!”
Quelle parole, così cariche di dolore e di una volontà ferrea, mi toccarono nel profondo.
Stefano non chiedeva vendetta, non cercava la punizione, ma giustizia.
Giustizia per un figlio che aveva avuto così poco dalla vita, per una famiglia che era stata distrutta dall’indifferenza e dalla negligenza. Mi ha affidato uno dei compiti più difficili della mia carriera, ma anche uno dei più importanti: fare in modo che la morte di quel bimbo non fosse stata vana, che servisse a cambiare qualcosa, a evitare che altri genitori dovessero affrontare lo stesso incubo.
E in quel momento, ho giurato a me stesso che avrei fatto tutto il possibile per mantenere quella promessa.
Le indagini preliminari, il rinvio a giudizio ed il verdetto di primo grado
Dopo il sequestro della cartella clinica e l’esame autoptico, i consulenti del Pubblico Ministero accertarono con dolorosa chiarezza che la morte di Luca era stata causata da un arresto cardiorespiratorio dovuto a una cardiomiopatia ipertrofica¹. Questa è una patologia cardiaca grave, spesso asintomatica e subdola, ma se diagnosticata in tempo, esistono trattamenti che possono migliorare significativamente la qualità della vita e in alcuni casi, salvare il paziente. La scoperta fu devastante per Stefano e Marika. Il pensiero che una diagnosi tempestiva avrebbe potuto offrire a Luca una possibilità, seppur minima, di sopravvivenza, era un macigno insopportabile.
Nel giudizio di primo grado, iniziato con la ferma determinazione di Giovanni di ottenere giustizia per la perdita del figlio, le speranze della famiglia furono però ripetutamente infrante. L’intera vicenda giudiziaria si rivelò un cammino doloroso e pieno di ostacoli. Il processo penale, in cui i medici dell’Ospedale civico erano accusati di negligenza e omissione di soccorso, si basò in gran parte sulle perizie tecniche. La consulenza della difesa puntò tutto su un aspetto cruciale: la natura della cardiomiopatia di cui soffriva Luca era tale da rendere l’esito fatale inevitabile, indipendentemente dal momento in cui fosse stata diagnosticata.
I periti nominati dal tribunale sostennero che, anche se i medici avessero riconosciuto la patologia durante il ricovero del 2002, non ci sarebbero state garanzie di un esito diverso. La malattia era tanto avanzata e complessa che, con gli strumenti e le conoscenze disponibili all’epoca, non sarebbe stato possibile arrestarne il decorso. I consulenti evidenziarono che la cardiomiopatia ipertrofica può, in molti casi, progredire silenziosamente, manifestandosi all’improvviso con eventi fatali, come nel caso di Luca.
L’omissione diagnostica, pertanto, non venne considerata determinante nella causazione della morte del piccolo.
Stefano e Marika, già profondamente provati dalla perdita del loro bambino, dovettero affrontare un verdetto che suonava come un’ulteriore ingiustizia.
Il tribunale, nel pronunciarsi, rigettò le richieste risarcitorie della famiglia, escludendo la responsabilità dei medici. Il giudice accettò la linea difensiva secondo cui, alla luce delle condizioni cliniche di Luca, il decesso non sarebbe stato evitabile anche in presenza di una diagnosi tempestiva.
Questa sentenza lasciò un segno profondo nei genitori di Luca. Stefano, che aveva riposto tutta la sua fiducia nella giustizia, si trovò di fronte a un sistema che, agli occhi della sua famiglia, sembrava tutelare più gli interessi della struttura sanitaria che non i diritti del loro bambino. Marika, che fino all’ultimo aveva sperato in un riconoscimento della verità, fu annientata dal dolore e dalla sensazione che il loro piccolo fosse stato tradito una seconda volta, prima dalla medicina e poi dalla giustizia.
La sentenza sembrava dire loro che, nonostante le evidenti mancanze, nessuno sarebbe stato ritenuto responsabile per la vita spezzata di Luca.
Questo fu solo l’inizio di una battaglia che Stefano e Marika erano determinati a portare avanti. Nonostante l’amarezza, decisero di non arrendersi, di non permettere che la memoria di Luca venisse cancellata da un sistema giudiziario che, in quel momento, sentivano di non poter più comprendere né tantomeno accettare.
La Battaglia in Appello
Non ci arrendemmo. Dopo la sentenza di primo grado, che lasciò un amaro senso di ingiustizia nei cuori di Stefano e Marika, decidemmo di continuare la nostra battaglia.
Il dolore di quella sentenza, che sembrava negare qualsiasi responsabilità dei medici, era troppo grande per essere accettato senza lottare ancora. Presentammo ricorso in Appello, con la determinazione di dimostrare che la verità era stata ignorata e che Luca non era stato trattato con la dovuta attenzione fin dal primo ricovero nel 2000.
Sostenemmo che già in quell’occasione, ben due anni prima della sua morte, i medici avevano mancato di eseguire gli esami necessari per individuare la grave patologia cardiaca di cui Luca era affetto. I segnali erano lì, visibili per chiunque avesse voluto guardare più a fondo, ma furono ignorati. Se solo avessero preso sul serio i sintomi che Luca aveva manifestato, se solo avessero fatto un’analisi più accurata, forse la malattia avrebbe potuto essere diagnosticata in una fase meno avanzata.
Ma anche questa volta, la giustizia sembrava voltare le spalle a Stefano e Marika.
La Corte d’Appello, dopo aver ascoltato le nostre argomentazioni e aver esaminato nuovamente la consulenza tecnica, confermò il rigetto delle nostre richieste.
I Giudici ribadirono la stessa conclusione raggiunta in primo grado: la patologia di Luca era troppo grave, troppo avanzata per essere curata, anche se fosse stata diagnosticata in tempo. La sentenza fu un colpo devastante per Stefano e Marika. Ogni parola pronunciata dai Giudici sembrava un’altra lama nel loro cuore già ferito, un’altra negazione della possibilità di trovare giustizia per il loro figlio.
Ricordo vividamente quel giorno in tribunale. Stefano, solitamente così forte e deciso, sedeva accanto a me con il volto segnato dalla stanchezza e dalla delusione. Marika, sempre silenziosa e fragile, stringeva tra le mani una piccola fotografia di Luca, l’unica cosa che sembrava darle un minimo di conforto in mezzo a tanto dolore. Quando il verdetto fu pronunciato, non ci furono grida né proteste. Nuovamente un silenzio assordante, carico di una sofferenza che nessuna sentenza avrebbe mai potuto alleviare.
I Giudici sembravano essersi affidati ciecamente alla consulenza tecnica, come se fosse una verità assoluta e indiscutibile. Ma noi sapevamo che dietro quelle parole si nascondeva un’altra realtà, una realtà fatta di negligenza, superficialità e mancanza di empatia. La Corte d’Appello aveva scelto di credere che nulla avrebbe potuto salvare Luca, ma noi eravamo convinti che la sua vita avrebbe potuto essere diversa, se solo fosse stato trattato con la cura e l’attenzione che ogni bambino merita.
La sentenza fu una ennesima doccia gelata, che ci fece comprendere quanto fosse difficile combattere contro un sistema che sembrava più interessato a proteggere sé stesso che a rendere giustizia. Tuttavia, Stefano e Marika non erano persone che si arrendevano facilmente. Il loro amore era più forte di qualsiasi sentenza, e sapevano che non potevano fermarsi lì. Anche se le speranze di successo sembravano ridursi a ogni passo, la volontà di lottare per la verità e per la memoria di Luca continuava a crescere. Decidemmo di andare avanti, nonostante tutto, perché quella battaglia non riguardava più solo loro o il loro dolore. Riguardava tutte le famiglie che, come la loro, avevano perso la fiducia in un sistema che dovrebbe proteggere i più deboli e non permettere che tragedie come quella di Luca Esposito accadano senza conseguenze.
Il verdetto finale
Sono passati 22 anni da quel tragico giorno. Riusciremo a trovare la serenità?
Nel ricorso in Cassazione, decidemmo di andare oltre le semplici argomentazioni già presentate nei precedenti gradi di giudizio.
Sollevammo gravi dubbi sulle conclusioni della Corte d’Appello, mettendo in discussione non solo le decisioni prese, ma anche il metodo con cui erano state raggiunte.
Sostenemmo con fermezza che non era stato fatto tutto il possibile per accertare se i medici avessero davvero agito in conformità ai protocolli dell’epoca. Non potevamo accettare che la responsabilità fosse stata liquidata con tanta leggerezza, come se la vita di Luca fosse stata un dettaglio trascurabile in un sistema sanitario che aveva fallito.
Argomentammo che la Corte d’Appello aveva ignorato importanti elementi, sottovalutando la necessità di verificare con precisione se i sanitari avessero seguito tutte le procedure necessarie per diagnosticare tempestivamente la malattia. Presentammo prove e riferimenti a protocolli medici che avrebbero dovuto essere applicati durante i ricoveri, già dal 2000, quando i primi sintomi avrebbero potuto suggerire l’esistenza della grave patologia cardiaca che lo affliggeva. Era imperativo per noi dimostrare che il sistema aveva fallito, non solo nei quattro giorni fatali del ricovero del 2002, ma anche due anni prima, quando la diagnosi mancata aveva segnato il destino del piccolo.
Tuttavia, nonostante il nostro impegno e le speranze riposte nel ricorso, la Suprema Corte, con una sentenza che lasciò tutti noi increduli e amareggiati, respinse il ricorso.
Dichiararono che era privo di autosufficienza, una terminologia fredda e tecnica che, nella sua durezza, nascondeva un altro colpo mortale per Stefano e Marika. Con quel termine, la Corte ci accusava implicitamente di non aver fornito elementi sufficienti a sostenere le nostre tesi, di non aver argomentato con abbastanza precisione e dettaglio.
Era come se tutto il dolore, la frustrazione e la ricerca di giustizia venissero ridotti a una questione di forma, di tecnicismi legali che non riuscivano a catturare la gravità della situazione.
La sentenza della Cassazione rappresentava l’ultimo baluardo per Stefano e Marika, l’ultima possibilità di ottenere quella giustizia che sembrava sempre più distante.
Quando la notizia arrivò, ricordo che Stefano, che non aveva mai smesso di lottare, mi guardò con occhi pieni di una stanchezza infinita, come se in quel momento avesse perso non solo la battaglia legale, ma anche una parte di sé. Marika, al suo fianco, non riuscì a trattenere le lacrime, stringendo tra le mani quella piccola fotografia che l’aveva accompagnata in ogni udienza, in ogni tappa di quella lunga e dolorosa lotta.
Quella sentenza non era solo una sconfitta legale, era un messaggio devastante per tutti coloro che speravano che il sistema giudiziario potesse offrire una via per il riscatto, per la giustizia.
Era l’ennesima conferma che, a volte, la verità non basta se non è accompagnata da prove impeccabili e da un’argomentazione che possa resistere alla fredda logica della legge.
Stefano e Marika avevano combattuto con tutto ciò che avevano, ma si trovavano di fronte a un sistema che sembrava più preoccupato di rispettare i propri rigidi standard piuttosto che di fare giustizia.
Anche se la Suprema Corte chiuse le porte a quella che sembrava essere l’ultima speranza per Stefano e Marika.
La memoria di Luca, la sua breve ma preziosa vita, meritava più di un verdetto che ignorava la sostanza della sua storia.
Continueremo a cercare modi per far sentire la loro voce, per non lasciare che quella sentenza fosse l’ultima parola. Perché, alla fine, ciò che conta davvero non è solo vincere o perdere in un’aula di tribunale, ma lottare per ciò che è giusto, per la verità e per l’amore di un figlio che non doveva essere dimenticato.
La storia di Luca e dei suoi genitori, ci lascia riflettere su tre cose fondamentali:
Scegliere Strutture Sanitarie e Professionisti Assicurati: È essenziale affidarsi a strutture sanitarie e professionisti del settore medico che siano assicurati con polizze adeguate alle leggi vigenti. Questo non solo garantisce il paziente in termini economici, in caso di richiesta di risarcimento, ma assicura la serietà delle strutture e dei sanitari.
Rimanere Aggiornati sulle Novità in Tema di Sicurezza delle Cure e Diritti dei Pazienti: Essere informati sulle ultime novità in tema di sicurezza delle cure e diritti dei pazienti è cruciale. Conoscere i propri diritti e le migliori pratiche sanitarie permette di fare scelte consapevoli e di pretendere il massimo dalla sanità.
Farsi Seguire da un Consulente Assicurativo Preparato: La rilevanza di essere sempre seguiti da un intermediario o consulente assicurativo professionalmente preparato e aggiornato è fondamentale. Un buon consulente può guidare nelle scelte assicurative, garantendo la protezione necessaria.
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*I personaggi e gli eventi descritti in questo articolo sono frutto della fantasia e non corrispondono a persone o situazioni reali. La storia narrata è liberamente ispirata alla sentenza della Corte di Cassazione n. 10817 del 2024. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o decedute, è puramente casuale.
¹ malattia del muscolo cardiaco caratterizzata da un aumento dello spessore delle pareti del ventricolo sinistro